Oggi ricollegandomi in parte a quanto detto negli articoli precedenti, vorrei chiudere il cerchio sugli aspetti etico-morali del giocosport, dell’influenza del nostro ruolo e dell’attività sportiva nella crescita dei bambini.
Diatriba di vecchia data tra tecnici più o meno importanti, c’è chi considera l’aspetto “morbido” del Minibasket nei confronti dell’agonismo e della tecnica una perdita di tempo prezioso, e chi invece lo considera tappa fondamentale, soprattutto nello sviluppo della personalità dei giovani atleti… Io mi sbilancio e cerco di farvi comprendere il mio punto di vista, secondo cui il bambino non va assolutamente considerato un piccolo uomo.
MI piace rifarmi a citazioni di persone sicuramente più competenti e preparate di me, e una frase di un pedagogo di cui non ricordo ora il nome (ma non dimentico mai le sue parole) mi ha accompagnato nel mio processo di formazione da istruttore, e mi ha aiutato a chiarirmi le idee:
“Il gioco deve adattarsi al bambino, mentre invece, troppo spesso, i bambini giocano i giochi degli adulti.”
Queste parole, supportate poi dall’esperienza fatta in palestre di diverso genere, hanno rafforzato le mie convinzioni.
Nei bambini lo sport è organizzato secondo modelli ereditati in linea diretta dagli adulti. Si distribuiscono medaglie e titoli, si stabiliscono classifiche, si fanno mini-campionati. Come nei grandi! Tuttavia il bambino non è un adulto in miniatura. Il sacrosanto “istinto di competizione” non è tanto intangibile quanto molti immaginano. D’altronde gli psico-pedagoghi si affrontano su questo campo da decenni, e quindi liquidare l’argomento in poche parole, senza approfondire, appare impresa abbastanza difficile.
Diciamo semplicemente che la voglia di confrontarsi con gli altri appare molto presto, già verso l’età di 2-3 anni. Invece la competizione non sembra un passaggio obbligato dai giochi, anche sportivi (il giocosport di cui abbiamo precedentemente parlato) dell’infanzia. Per esempio, senza voler tornare troppo indietro nel tempo, Klinberg nel 1948 aveva osservato che i bambini degli Hopi (una tribù di Indiani dell’America del Nord) si entusiasmavano per il basket, ma non si è mai riusciti a fargli imparare a contare i punti. Nel 1966 Franck fece la stessa osservazione per i bambini Navajos. Essi adoravano giocare a tennis, ma non provavano il bisogno di organizzare delle partite.
Ciò significa che l’istinto di competizione non è visceralmente collegato alla natura umana. Bisogna bandirlo? Sicuramente no. Possediamo quasi tutti nella memoria una moltitudine di situazioni in cui il quadro della competizione apportava un sale supplementare al piacere di giocare e di stare insieme.
L’organizzazione di competizioni sotto l’autorità e la direzione di un arbitro si rivela ugualmente un buon mezzo per integrare nozioni quali il fair-play, il rispetto dell’avversario e delle regole di gioco. Non servirà a niente vietare la gara al bambino con il pretesto della sua troppo grande fragilità psicologica. Invece è importante restringerne l’importanza.
Personalmente credo che la strada giusta sia quella tracciata dalla nostra Federazione, ossia “veicolare” l’accesso allo sport di alto livello con rigidi limiti minimi di età , attraverso una crescita dell’agonismo graduale, anche perchè non va assolutamente sottovalutato l’impatto sul piano della salute della pratica troppo intensa di uno sport nell’infanzia, spesso collegata a turbe dello sviluppo.
Queste nozioni sono adesso ben comprese dall’insieme delle professioni mediche: i risultati di una grande inchiesta, condotta dalla Società Francese di Pediatria, hanno mostrato che più del 90% dei 3500 pediatri intervistati attribuiscono all’attività fisica moderata molteplici virtù, ma il 75% di questi stessi pediatri pensano che l’alta competizione sia nociva prima della pubertà.
Qual è il rischio? Per chiarire, si teme che il bambino superi i suoi limiti fisiologici che sono assolutamente differenti da quelli di un adulto.
In questa prospettiva ancora una volta salta all’occhio quanto il ruolo dell’allenatore, degli insegnanti e dei genitori non sia sottovalutare, poiché il bambino non ha reali capacità di stabilire un certo distacco, ma anzi è completamente sotto l’influenza del suo entourage e quest’ultimo può essere disastroso.
Tanti istruttori “sognano” di allenare squadre di bambini orfani, perchè spesso i nostri bambini sono costretti a “subire” consigli e rimproveri non solo dalla panchina, ma anche dalle tribune, dai genitori, che inconsapevolmente condizionano i mini atleti e il loro comportamento, con il risultato, il più delle volte, di creare paure e insicurezze, o convinzioni errate.
Il minibasket non deve essere, ricordiamolo, il trampolino di lancio per diventare grandi campioni, ma un esperienza formativa, educativa e ludica per tutti, talenti precoci compresi!.
E proprio a proposito di questi ultimi e del loro sfruttamento, in allenamento e/o in partita, spesso si rischia ugualmente di dimenticare una nozione fondamentale dello sviluppo: “il bambino, anche quello più bravo, ha talvolta bisogno di non fare niente”. Ma sovente capita di sfruttarlo troppo, fargli saltare alcuni processi e tappe di crescita solo perchè già più bravo degli altri, insegnargli la tecnica sin da subito, perchè ci aiuta a vincere, ma questo equivale troppe volte a spremerlo, e quando non arriveranno più successi e “gloria” arriva l’abbandono.
Numerosi studi hanno così mostrato l’importanza fondamentale della noia. È giocando, ma anche annoiandosi, che il bambino costruisce una parte della sua personalità. Diffidiamo di una vita che abbandona troppo presto l’aspetto ludico per opzioni immediate di rendimento.
Quindi lasciamo loro il tempo per “non far niente”, o di far altro, non stressiamoli precocemente, non mettiamogli fretta, e questo aiuterà loro a diventare, oltre che persone equilibrate, probabilmente anche atleti migliori.
Sergio Mazza
Istruttore nazionale e Formatore della FIP (Federazione Italiana Pallacanestro)